SL20 – Il cammino dei ribelli del Monte Lazzaro

L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e brevi tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli medi, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in buona forma fisica. Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione. Si tratta di un percorso ad anello (con due deviazioni verso i punti di interesse) che inizia e si conclude nell’abitato di Marzonago (comune di Alta Val Tidone), presso la chiesa della Beata Vergine del Carmine. Considerati gli spazi piuttosto ristretti lato strada, è opportuno parcheggiare nella zona più alta del paese, mentre si consiglia ai gruppi numerosi di organizzarsi per una partenza dalla non lontana Pecorara, dove è possibile parcheggiare nella zona sottostante la chiesa di S. Giorgio. Per la prima parte dell’itinerario si seguono i segnavia CAI, in particolare il sentiero 215 e, per un breve tratto, il sentiero 101, mentre nella seconda parte la segnaletica di riferimento sarà quella a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina, che segnalerà anche i passaggi tra i diversi sentieri CAI. Non sono presenti punti acqua sul percorso, quindi si consiglia di rifornirsi alla partenza.

Difficoltà
Medio
Livello
Escursionistico
Lunghezza
12 km
Durata
4,5 ore al netto delle soste

Inizio/Fine
Marzonago di Alta Val Tidone (PC) - Marzonago di Alta Val Tidone (PC)
Dislivello salita
500 m
Dislivello discesa
500 m

Scarica GPX KML

Una lunga salita sul misterioso Monte Lazzaro

Si parte dalla frazione di Marzonago, imboccando il sentiero CAI 215 che scende attraverso un prato fino alla strada di fondovalle, la SP34. Attraversata la strada comincia la lunga salita che ci porterà fino alle pendici del Monte Lazzaro, percorrendo praticamente l’intero dislivello del percorso. All’inizio si passa da Casa Marconi, un gruppo di case quasi disabitato.  Si sale quindi fino ad incrociare nuovamente la SP34, e la si attraversa inoltrandosi in salita  nella frazione di Sevizzano. Ritrovata la strada provinciale, la si abbandona subito salendo sulla destra. Da quel punto si entra nel bosco e si sale decisamente per un lungo tratto, fino ad abbandonare il sentiero CAI prima dell’ultimo strappo che ci condurrebbe alla vetta del Monte Lazzaro. Si svolta invece a sinistra in corrispondenza della segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina, seguendo un sentiero che costeggia il fianco della montagna fino a incontrare il sentiero CAI 101 che si imbocca verso sinistra scendendo, fino ad uscire dal bosco in prossimità del Passo della Caldarola.

Qui il paesaggio cambia radicalmente. La prima parte del sentiero è infatti tutta nel bosco, una salita nel silenzio tra una fitta vegetazione sul  fianco nord della montagna, tra case abbandonate e piccoli borghi arroccati. Una volta svalicato invece, si sbuca dal bosco trovandosi di fronte un panorama mozzafiato che si apre verso la Val Trebbia, nel quale svetta la Pietra Parcellara, alle cui spalle in lontananza si scorgono tante delle cime che stanno sul crinale tra Val Trebbia/Val Perino e Val Nure: tra le altre, i prossimi Monte Dinavolo, Monte Barbieri e Monte Armelio, fino ad arrivare con lo sguardo verso il passo del Cerro e il Monte Osero, luoghi dove scorrono altre storie e altri sentieri;

Seguendo il percorso che svolta a destra poco prima del Passo, abbandonando il sentiero CAI e seguendo la segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina, si arriva presto all’abitato di Fosseri. Lo stato di abbandono delle vecchie case diroccate ci aiuta a viaggiare con l’immaginazione, fino all’inverno del 1943, quando la piccola frazione ospitava i primi partigiani della “Banda Piccoli”. Si compie poi a ritroso il tragitto, ripercorrendo quindi dal Passo della Caldarola il sentiero CAI 101 a sinistra in salita, per poi svoltare ad un certo punto verso destra abbandonandolo, seguendo la segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina. Si segue un sentiero che corre parallelo alla SP65, che raggiungeremo e seguiremo fino ad arrivare al monumento che ricorda Giovanni Molinari e gli altri caduti del 5 Giugno 1944. Il percorso sull’asfalto si ripercorre poi a sua volta a ritroso fino a svoltare a destra immediatamente prima del punto da cui eravamo scesi, su di una strada sterrata che ci riporterà fino a Marzonago. Qui gli spazi sono ampi ed aperti, e la discesa lenta e graduale. Un ritorno ideale, che ci dà il tempo di riflettere, dopo una lunga camminata alla riscoperta di uno degli episodi più controversi della Resistenza italiana.

The dark side of the moon

Partigiani che uccidono partigiani

In venti mesi la Resistenza passa dall’essere una galassia di piccoli gruppi sparsi, sorretti da motivazioni e propositi vari, all’essere un esercito democratico di massa, organizzato e inquadrato. Questo processo non è certo indolore, ma anzi è costellato di episodi ‒ talvolta drammatici ‒ di rivalità e tensioni, interne alle formazioni e tra gruppi partigiani diversi. In molti casi si riesce a mediare e i conflitti si riassorbono, ma qualche volta l’inconciliabilità di idee politiche e di strategie di guerriglia porta al disarmo, all’allontanamento coatto o anche all’eliminazione di intere formazioni. Episodi spesso taciuti a lungo, per il dolore e la vergogna, ma anche per la volontà di non incrinare l’unitarietà e la concordia del movimento di Liberazione. In anni più recenti, alcuni episodi di violenza intrapartigiana (si pensi all’eccidio di Porzus) sono stati invece portati al centro dell’attenzione, spesso mettendo sotto i riflettori le strategie aggressive di lotta e controllo del territorio dei comunisti. Si tratta di casi letti spesso attraverso le lenti deformanti delle contrapposizioni ideologiche della Guerra Fredda, che periodicamente suscitano polemiche accese nelle commemorazioni e nella memoria pubblica. A scontrarsi con silenzi e deformazioni sono stati spesso storici e storiche locali, che hanno disseppellito singole vicende e biografie, superando veti, ostracismi e omertà. Storie che nella loro insopprimibile unicità rimandano a un panorama molto complesso, in cui gli equilibri di un esercito di liberazione sorto quasi dal nulla celano profonde linee di tensione. Spesso ragioni di partito, rivalità personali, strategie di controllo del territorio vanno di pari passo, in nodi difficili da dirimere, e la soppressione delle formazioni rivali, sbrigativa e sommaria, rimane impossibile da scrutare nelle sue ragioni profonde.

L’estate 1944, la stagione della grande espansione partigiana, è il momento in cui molti attriti latenti si fanno insanabili. I “partigiani dell’inverno”, quelli che erano saliti in montagna per primi, avevano formato bande autonome e molto libere, con quasi nessun contatto con i Cln della pianura, costruite intorno a capi carismatici locali che rappresentavano l’unica reale autorità per i propri uomini. L’affluire di centinaia di nuove reclute, la conquista di intere zone libere, rende invece necessaria una Resistenza di segno diverso. Sempre più bisogna riportare i piccoli e indisciplinati gruppi locali sotto la guida di organismi centrali, irreggimentarli, normarli, ridurne l’autonomia e lo spazio di manovra. È un processo doloroso per molti, che erano stati capi coraggiosi nei momenti più duri e incerti della prima lotta, e che si vedono esautorati da dirigenti la cui riconoscibilità e poco più che nominale. D’altra parte, l’abbandono di un certo “spontaneismo anarchico” da parte delle prime bande, segna un salto di qualità per la Resistenza, che riesce a portare avanti azioni militari più coordinate ed incisive e a conquistare una dimensione compiutamente politica.

Oggi siamo in grado di leggere la violenza interna come un fattore costitutivo del movimento resistenziale, e scontri di questo tipo sono presenti in tutte le zone partigiane, quasi sempre giustificati dalla fazione vincente come doverosa repressione di elementi indisciplinati, disonesti e violenti. Così in Val Trompia Nicola Pankov, capo carismatico di un gruppo autonomo di partigiani russi restii a inquadrarsi nell’organigramma del Cln, viene ucciso da un gruppo di garibaldini. Altrettanto incontrollabile appare, agli occhi dei comandi partigiani parmensi, Gianni Di Mattei “Juan”, fucilato con l’accusa di avere abbandonato il posto di combattimento durante un rastrellamento. L’uccisione di Dante Castellucci “Facio”, combattivo comandante partigiano tra Emilia e Toscana, ha lasciato ferite profonde nella memoria. Accusato di avere sottratto materiale aviolanciato, Facio viene condannato a morte da un tribunale partigiano, ma nel dopoguerra gli viene conferita una medaglia d’argento alla memoria con la falsa motivazione che «scoperto dal nemico si difendeva strenuamente; sopraffatto e avendo rifiutato di arrendersi, veniva ucciso sul posto». Alla base dell’eliminazione di Castellucci stanno volontà di controllo del territorio ma anche rivalità e antipatie personali. Anche l’omicidio del cattolico Mario Simonazzi “Azor” nel Reggiano affonda le radici in questioni che stanno a cavallo tra il privato e il politico. Il comandante partigiano era entrato in contrasto con i garibaldini, e i dissidi sono acuiti dalla volontà di accaparrarsi i soldi che Azor deteneva. Tutti uomini a lungo dimenticati, o più tristemente accusati di essere ladri e banditi, ai quali oggi siamo in grado di restituire dignità e onore.

Il più grande eccidio dopo Porzus

Giellisti che uccidono comunisti

Nato nel 1900, Giovanni Molinari vive sulla propria pelle la violenza fascista. Figlio dell’ultimo sindaco socialista di Fiorenzuola d’Arda, nel 1921 perde il fratello in un agguato squadrista. Nel Ventennio Giovanni è tra i pochi a mantenere un’esile rete di contatti tra antifascisti. Membro del Pci, all’indomani dell’armistizio è tra i primi a mettersi in moto, guidando la formazione di alcune bande in montagna con il nome di battaglia “Piccoli”. Nei primi mesi del 1944, il Cln di Piacenza invia Piccoli in Val Tidone, zona dove la presenza partigiana è scarsa, per avviare la lotta clandestina. Molinari fissa la sua base a Fosseri, nei pressi del Passo della Caldarola, luogo strategico che controlla le valli Trebbia, Tidone e Luretta, e da subito si fa conoscere per il suo attivismo. Con la sua banda porta avanti alcuni attentati in stile gappista, uccidendo esponenti della Repubblica sociale italiana e attaccando le caserme della Gnr. La linea aggressiva di Piccoli si scontra con quella, più attendista, di un altro gruppo partigiano che si stava consolidando tra Val Tidone e Val Trebbia: il gruppo “Carabinieri patrioti” guidato da Fausto Cossu. In un crescendo di accuse, Giovanni Molinari e quattro uomini della sua banda vengono disarmati e uccisi. La banda Piccoli, che si era distinta per la sua combattività e per la forte connotazione politica, viene spazzata via e i suoi membri accusati di essere ladri e grassatori. Da parte sua, il Cln piacentino, ancora in fase organizzativa, fatica a sanzionare efficacemente l’omicidio di Piccoli, e non intende incrinare il prestigio che Fausto Cossu stava conquistando tra i suoi uomini. Una serie di “questioni private” che si intrecciano con grandi dinamiche interne al movimento di Liberazione. Mentre sulle montagne di Pecorara si consuma la resa dei conti tra Fausto e Piccoli, il Partito d’Azione intraprende una serie di missioni per conquistare posizioni di rilievo all’interno delle formazioni partigiane emiliane, controllate per la stragrande maggioranza dal Partito comunista. Con l’adesione di Fausto al Partito d’Azione e con l’eliminazione della banda Piccoli, si spezza il monopolio della Resistenza garibaldina. I luoghi dove Giovanni Molinari aveva guidato la sua banda diventano definitivamente la base di un imponente formazione militare, la più grande Divisione “Giustizia e Libertà” dell’Emilia-Romagna.

A lungo gli uomini e le donne del Partito comunista piacentino hanno faticato a parlare del doloroso caso Piccoli, probabilmente per paura di incrinare il volto unanime della Resistenza. A lungo i fiorenzuolani hanno coltivato una propria “memoria divisa” di questo eroe tragico, lottando contro le voci che lo accusavano di furto e contro i silenzi della narrazione egemonica della Resistenza locale che lo ha messo ai margini, e la piazza principale di Fiorenzuola è intitolata proprio Fratelli Carlo e Giovanni Molinari.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *