SL21 – Il cammino degli ospedali partigiani

L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli impegnativi, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in ottima forma fisica. Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione. Si tratta di un percorso ad anello, che inizia e si conclude nel centro di Pecorara (dove è possibile parcheggiare nel piazzale sottostante la Chiesa di S. Giorgio). L’itinerario parte dal centro dell’abitato e, una volta raggiunta la SP34, segue per la maggior parte sentieristica CAI, percorrendo rispettivamente ampi tratti dei percorsi 213, 203, 201, 19 e 219, incontrando sulla propria strada i segnavia del Sentiero del Tidone, della Via degli Abati e del Sentiero dei Celti Liguri. Raggiunta la loc. di Lazzarello, in prossimità del cimitero, l’itinerario scende verso loc. Costalta seguendo la segnaletica posta dai volontari del Museo della Resistenza, contrassegnata da una stella con fondo bianco e bordo rosso, fino poi a ritrovare il percorso CAI 219 fino al rientro a Pecorara. In corrispondenza di bivi e di punti di passaggio tra i diversi sentieri CAI saranno presenti frecce in legno riportanti la stella bianca e rossa e la sigla SL21. Oltre alla partenza in Pecorara, sono presenti alcuni punti acqua lungo il percorso, situati in prossimità dei centri abitati di Caprile, Cicogni, Praticchia e Lazzarello.

Difficoltà
impegnativo
Livello
Escursionistico
Lunghezza
18 km
Durata
6 ore al netto delle soste

Inizio/Fine
Parcheggio della chiesa di S.Giorgio - Pecorara (PC)
Dislivello salita
950 m
Dislivello discesa
950 m

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Sul crinale tra Emilia e Lombardia, alla ricerca dell’infermeria nascosta

Il percorso ha come centro ideale l’infermeria partigiana di Costalta di Pecorara, controllata dai partigiani della Divisione “Giustizia e Libertà”. Come abbiamo visto, questo è solo uno dei tanti nodi della rete sanitaria della Resistenza piacentina, che abbraccia tutto il medio e alto Appennino. Il sentiero degli ospedali partigiani SL 21 si collega idealmente al sentiero SL 6 “Il cammino di Don Borea”, che tocca il preventorio di Bramaiano, nella lontana Val Nure, sede dell’ospedale della XIII Zona. Si tratta di un lungo itinerario che ci porta nella zona più alta e occidentale della Val Tidone, sul confine tra le province di Piacenza e Pavia. Il percorso ad anello parte da Pecorara, dove si può comodamente parcheggiare nell’ampio parcheggio posto dietro la chiesa dedicata a San Giorgio Martire, proprio sotto la piccola scuola elementare. Iniziando a camminare si costeggia la chiesa e si prosegue attraversando il paese, dove è presente un bar e dove si imbocca il percorso CAI 213. Dopo pochi minuti di marcia il centro abitato viene lasciato alle spalle e attraversata la SP34 inizia il percorso naturalistico. Il panorama si apre e si possono osservare la valle del Tidoncello, affluente del fiume Tidone, e i paesi che si incontreranno lungo il percorso. Superato il Tidoncello inizia la salita nel bosco che prosegue superando il minuscolo abitato di Caprile e conduce ad un crocevia sulla sommità della collina. In loc. Pian di Busseto si imbocca il percorso CAI 203 e si scende fino ad incontrare Cicogni, piccolo paese ma molto vivo e caratteristico. Si segnala qui la presenza di un bar/ trattoria in piazza e di un punto acqua che si incontra uscendo dal caseggiato. Si imbocca quindi il percorso CAI 201, si superano Cicogni e il ponticello sul Rio Merlingo e si riprende quindi la salita sulla mulattiera fino al caratteristico abitato di Praticchia, punto più alto del percorso con i suoi 880m. La particolarità di questa piccola frazione sono le sue stesse abitazioni, costruite intorno a grandi rocce. Raggiungiamo il crinale che separa la provincia di Piacenza da quella di Pavia e lo percorriamo in direzione nord per circa 5 Km, alternando tratti di strada asfaltata a carraie e sterrati, seguendo diversi percorsi che qui insistono: il percorso CAI 19, la Via degli Abati, il Sentiero del Tidone e il Sentiero dei Celti e dei Liguri. In corrispondenza del bivio per Romagnese, che distinguiamo chiaramente alla nostra sinistra, si trova una delle ormai note “panchine giganti”. Il tracciato continua a seguire il crinale alternando zone boschive e spazi più aperti, fino a raggiungere un crocevia, presso il quale scegliamo di proseguire per il percorso CAI 219, lasciando quindi il sentiero e i percorsi che salgono al Monte Lazzarello. Poco dopo scopriamo un altro luogo particolare: l’osservatorio astronomico di Lazzarello, gestito dal Gruppo Astrofili di Piacenza (http://www.astrofilipc.it/osservatorio/). Da qui si ha una visuale particolarmente suggestiva del Monte Penice, che domina questa parte della provincia. Subito dopo, in località Lazzarello, si costeggia il cimitero e quindi la chiesa parrocchiale di Casa Lazzarello, del XVI sec., con le caratteristiche campane collocate nel piazzale antistante. Abbandonato il percorso CAI 219 e imboccata la strada asfaltata che passa per il piccolo centro abitato, si comincia la lunga discesa verso il ritorno passando per la frazione di Costalta, luogo principale del percorso. Poco oltre il bar del paese, dove ci si può fermare per una sosta prima di terminare il cammino, troviamo infatti l’indicazione che ci porta nel cuore nascosto del piccolo borgo, fino all’edificio che durante la Resistenza ospitava l’infermeria partigiana, che si raggiunge con una breve deviazione dal percorso. Lasciando il borgo si scende in mezzo ai campi con una splendida veduta su Pecorara, recuperando il percorso CAI 219 che avevamo lasciato in precedenza e intravedendo il punto di arrivo. Si attraversa il fiume Tidoncello sul ponte a valle e si risale verso Pecorara percorrendo la strada asfaltata. Dopo un breve sentiero che sale ripido oltre la SP34, si giunge proprio nel piazzale antistante la chiesa di Pecorara e in pochi passi si raggiunge il punto di partenza.

Attenzione! Zona infetta da partigiani

L’esigenza di curare i feriti, dolorosa conseguenza di ogni conflitto armato, è da subito al centro delle preoccupazioni del movimento partigiano. Nei primi mesi, quella dei resistenti non può che essere una medicina di assoluta emergenza, che si avvale di una rete di luoghi diversi (infermerie clandestine, case private adibite a luoghi di cura, cliniche compiacenti nei quali gli irregolari possono essere curati di nascosto) e di personale vario (infermiere, farmacisti, medici, curatrici, suore, studenti di medicina). In seguito, a partire dall’estate 1944, nelle ampie zone libere che sorgono in tutta l’Italia settentrionale la Resistenza prende il controllo degli ospedali, passando da una gestione precaria a sistemi di cura più integrati e organici. In quelle che tedeschi e fascisti etichettano come “zone infette da partigiani” ‒ in un eloquente metafora che vede il virus del ribellismo diffondersi come un contagio ‒ si sperimentano nuovi sistemi di cura e si riflette anche sul ruolo che dovrà avere la medicina nell’Italia democratica. In questo senso, il Comando del Corpo Volontari della Libertà prescrive ai sanitari partigiani di curare anche i nemici, di farsi carico delle esigenze sanitarie della popolazione e di avviare inchieste sulla situazione epidemiologica e delle strutture ospedaliere, per permettere alla sanità pubblica di rientrare velocemente alla Liberazione. Nella sanità partigiana primeggiano le donne, che la cultura del tempo considerava naturalmente portate a ruoli di assistenza e cura, confinandole a un indistinto immaginario di ‘crocerossine’ della Resistenza. Al contrario, le partigiane addette ai servizi di cura riescono a rivendicare la centralità del loro ruolo e a costruire nuovi spazi di protagonismo anche nei confronti del fascismo, che aveva varato una serie di provvedimenti per femminilizzare l’infermieristica e renderla subalterna alla medicina, ambito riservato invece agli uomini. Inoltre, le donne sono spesso in prima linea ad affrontare la fase più critica della sanità partigiana: quella della caduta delle zone libere e dello smantellamento degli ospedali. Sorte nella grande illusione di una veloce liberazione del nord Italia, le repubbliche partigiane vengono infatti spazzate via una dopo l’altra dopo l’arresto dell’avanzata alleata sulla Linea Gotica e la diffusione del Proclama Alexander. Il movimento partigiano deve disperdersi e occultarsi e la cura dei feriti viene spesso affidata a civili e partigiane, nella convinzione che le figure femminili destassero minore sospetto. In questo frangente emergono diverse storie esemplari. Nella Repubblica dell’Ossola, l’infermiera professionale Maria Peron, partigiana della 85a Brigata “Val Grande Martire”, inventa un sistema di ambulatori improvvisati tra alpeggi abbandonati e grotte naturali, salvando tutti i pazienti e guadagnandosi la qualifica di ‘medico di brigata’. Nella Repubblica di Montefiorino Davida Papai “Vida”, ebrea iugoslava fuggita da un campo di internamento, riesce a passare le linee del fronte con undici compagni feriti per sottrarli ai rastrellamenti nazisti. In Veneto, nella zona libera del Cansiglio, Silvia Faveri “Dirce” è l’unica a rimanere al proprio posto nell’infermeria partigiana, sola con ventiquattro pazienti. Catturata, viene trattenuta in carcere fino alla Liberazione. Qui contrae il tifo, che la ucciderà pochi anni dopo. L’esempio più sorprendente ci viene però dalla Slovenia, capitale della medicina partigiana, dove il Fronte di Liberazione riesce a allestire impressionanti ospedali segreti, in luoghi irraggiungibili, con complessi sistemi di passerelle e ponti levatoi. Affidati alla direzione di mediche partigiane, gli ospedali sloveni sono in grado di ospitare centinaia di pazienti, di utilizzare macchinari ingombranti e rumorosi e di occultarsi totalmente al nemico. Ancora oggi, a pochi chilometri dal confine, inerpicandosi nelle gole di Pasice, è possibile visitare lo spettacolare ospedale partigiano intitolato alla dottoressa Franja Bojc, direttrice sanitaria della struttura e icona della Resistenza slovena. La drammatica esperienza della ‘guerra totale’ si traduce quindi nei movimenti di resistenza in tutta Europa in una grande attenzione alla vulnerabilità, a farsi carico di deboli, fragili e malati. Alla fine del conflitto, nell’Italia delle macerie, il Comitato di Liberazione Alta Italia ripensa radicalmente ai sistemi di welfare, chiedendo a gran voce un sistema di sanità pubblica universale che, dopo molte opposizioni, si realizzerà soltanto negli anni Settanta con la creazione del Sistema Sanitario Nazionale. Una conquista che trova le sue radici e i suoi precedenti (anche) sui monti partigiani.

La rete delle infermerie clandestine. Sanità partigiana nel Piacentino

 Anche a Piacenza la cura di feriti e malati è garantita, dall’estate 1944, da una fitta rete di almeno quattordici luoghi adibiti a infermerie partigiane, che coprono tutto l’Appennino controllato dalla Resistenza, distribuiti in tutte le quattro le valli. Tutte le Divisioni piacentine individuano responsabili sanitari, i quali scelgono scuole e case abbandonate come luoghi di cura, organizzando reti di approvvigionamento di farmaci e materiali farmaceutici. Un compito particolarmente importante, dal momento che le autorità fasciste della pianura bloccano l’afflusso di medicinali diretti verso le farmacie delle zone libere. Per questo, in vari reparti si costituiscono apposite squadre, incaricate di intercettare e prelevare convogli nemici con medicine, disinfettanti e bende. Tra le valli Trebbia e Tidone, nel territorio della Divisione “Giustizia e Libertà” di Fausto Cossu, l’assistenza sanitaria è organizzata dal dottor Francesco Ricci Oddi, chirurgo e anatomopatologo piacentino. È lui a individuare e mettere in funzione le cinque infermerie di Pentima di Groppo Arcelli, Scarniago, Bocchè di Mezzano Scotti, Rocca Pulzana di Pianello e di Pecorara. Vengono coinvolti altri medici, infermieri e studenti, riuscendo a coprire una capienza totale di novanta posti letto. Come nella tradizione militare della formazione, il servizio medico di “Giustizia e Libertà” si occupa anche di medicina preventiva, compiendo visite periodiche nei distaccamenti, dove scabbia e pidocchi sono all’ordine del giorno. Giuseppe Prati, comandante della Divisione Valdarda, affida invece la gestione sanitaria a Pietro Cavaciuti, medico morfassino specializzato in Igiene e Medicina preventiva. Infermerie vengono stabilite a Rocchetta, a Casali e a San Michele di Morfasso, e a Gropparello. Cavaciuti sceglie inoltre di allestire una rete di punti di primo soccorso, dove operano studenti e assistenti. Nella Val Nure liberata, sede del Cln provinciale, le attività sanitarie vengono accentrate nell’imponente ospedale partigiano dislocato al preventorio di Bramaiano. Una struttura costruita da poco, pensata per la convalescenza di bambini malati di tubercolosi, nella quale operavano già un gruppo di suore. Il Comandante Unico Emilio Canzi incarica gli studenti di medicina Ettore Valdini e Giancarlo Pizzi di allestire il nuovo presidio ospedaliero che, oltre ai territori della zona libera di Bettola, doveva servire a ricoverare i feriti più gravi di tutta la XIII Zona. Grazie ai contatti con medici ospedalieri della pianura, si riescono a far confluire all’ospedale partigiano diverse attrezzature mediche e allestire una sala operatoria e un reparto radiologico. Progressivamente, il preventorio diventa il cuore pulsante della sanità piacentina, grazie alla direzione di Cavaciuti e del dottor Rinaldo Laudi “Dino”, chirurgo e membro della comunità ebraica di Torino. Come nel resto dell’Italia settentrionale, anche a Piacenza la caduta delle zone libere porta con sé il dramma dell’evacuazione degli ospedali partigiani e del ricovero dei feriti non autosufficienti. La memorialistica riporta spesso l’immagine di slitte di fortuna, magari quelle destinate al carico di legname, utilizzate per trasportare i feriti nella neve. Si allestiscono ripari di fortuna e i feriti vengono ricoverati individualmente nelle case di famiglie montanare, dove sono spesso le donne a essere istruite ‒ come delle moderne caregiver ‒ sulle cure domiciliari da prestare. La rete di sanitari partigiani si disperde nella bufera del rastrellamento, fino alla primavera successiva, quando il servizio sanitario viene riallestito. Stavolta però, memori dell’esperienza terribile dello sfollamento del preventorio, i dirigenti partigiani scelgono di evitare un’eccessiva centralizzazione: il sistema di ricoveri individuali e infermerie diffuse si era rivelato più sicuro e gestibile. Nell’ultima fase della lotta di Liberazione, le tre Divisioni piacentine nominano ognuna un responsabile medico che con un gruppo di sanitari doveva seguire le formazioni partigiane nei combattimenti per la presa della città. I tre medici (Cavaciuti per la Valdarda, Ricci Oddi per la Piacenza e Gianni Peroni per la Valnure) rimangono però mobilitati ben oltre la fine del conflitto, con il compito di visitare i partigiani feriti e di produrre la documentazione necessaria all’ottenimento di risarcimenti e riconoscimenti di invalidità.

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