SL11 – Il sentiero della Stella Rossa

L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e brevi tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli medi, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in buona forma fisica.

Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione.

Si tratta di un percorso ad anello che inizia e si conclude nell’abitato di Piccoli di Calenzano (comune di Bettola), nei pressi dell’oratorio di S. Rocco (è consigliabile parcheggiare presso la vicina Chiesa di S. Lorenzo).

Il percorso si sviluppa inizialmente sul sentiero CAI 181, spostandosi nella parte alta sul sentiero 001, per riprendere, dalla vetta del Monte Osero, il 181 fino al ritorno. Per quasi tutto l’itinerario saremo accompagnati dai segnavia CAI, mentre la segnaletica posta dai volontari del Museo della Resistenza, contrassegnata da una stella con fondo bianco e bordo rosso, indicherà i punti di passaggio tra i diversi sentieri CAI.

Non sono presenti punti acqua sul percorso, quindi si consiglia di rifornirsi alla partenza.

Difficoltà
Medio
Livello
Escursionistico
Lunghezza
9,5 km
Durata
4 ore al netto delle soste

Inizio/Fine
Loc. Piccoli di Calenzano di Bettola (PC) - Loc. Piccoli di Calenzano di Bettola (PC)
Dislivello salita
700 m
Dislivello discesa
700 m

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Immersi in un coro di montagne

Il sentiero si sviluppa in un percorso ad anello dall’abitato di Piccoli di Calenzano, piccola frazione che conserva i tratti tipici degli abitati di montagna, con case fatte di pietra e tetti di ciappe, fienili chiusi da assi di legno scurite dal tempo e piccole strade strette tra una casa e l’altra dove si incontrano i pochi abitanti rimasti. La partenza è situata a fianco dell’oratorio di San Rocco, in un piccolo slargo dove è presente anche una antica vasca per l’abbeveramento degli animali da pascolo, oggi ottimo punto acqua per chi si prepara alla risalita della montagna.

Il percorso si sviluppa lungo il sentiero CAI 181. In un primo tratto il paesaggio è aperto sull’alta Val Perino ma presto, sempre in salita, si addentra nei boschi alle pendici del monte Osero. Tra muretti a secco e prati cinti da noccioli e meli selvatici si arriva in un’ombrosa pineta che lascia spazio a una maestosa faggeta. Dopo circa tre chilometri il percorso interseca il famoso sentiero CAI 001 e si inizia a ricalcare il tracciato della Marcia longa, una delle più antiche esperienze di trekking comunitario della provincia di Piacenza. La salita si fa ripida e il sentiero diventa impegnativo soprattutto in presenza di fango. La fatica viene però ripagata dal paesaggio che lentamente si apre avvicinandosi alla sella erbosa che congiunge i monti Cogno e Osero. Tirando il fiato prima di affrontare l’ultimo tratto che porta alla cima del Monte Osero a 1301 metri, lo sguardo si perde tra i monti e le valli e ci sentiamo come calati al centro di un coro di rilievi appenninici che ci abbracciano, dalle alture dei monti della Val d’Arda al Ragola e all’Aserei in alta Val Nure, al Lesima e lì, inconfondibili, le Pietre Parcellara e Perduca. Tutti monti familiari, da richiamare in una breve sosta che precede l’ultimo tratto di salita per guadagnare la cima e lasciar correre lo sguardo sino ai rilievi alpini in fondo alla sconfinata Pianura Padana. È proprio dal Monte Osero che si apprezzano le fioriture di maggiociondoli e ginestre che circondano le rovine del Castello d’Erbia e le argille erose dal vento che da Perino risalgono verso la costa del Monte Mangiapane.

Una panchina solitaria invita il camminatore ad una pausa di bellezza, mentre il vento che muove i roveti di rosa canina sembra il suono del coro di montagne che abbracciano i vasti prati sommitali. La grande distesa prativa è l’ideale come punto di ristoro. Dalla cima si riprende il sentiero CAI 181 per iniziare la discesa verso Calenzano. In poco più di un’ora si rientra all’abitato di Piccoli, ritrovando la strada asfaltata poco oltre l’abitato in prossimità della grande chiesa di San Lorenzo.

Il comandante e il commissario politico

Le Brigate Garibaldi

Nessuna delle forze che hanno partecipato alla lotta di Liberazione ha messo al centro l’esperienza della lotta di Liberazione quanto il Partito comunista.

Il Pci ha sempre rivendicato con forza la scelta partigiana, e si è raccontato come “il partito della Resistenza”, quello che ne era stato più di tutti l’ossatura organizzativa e il riferimento ideale. Resistenza e comunismo hanno finito così in molti discorsi pubblici per sovrapporsi, costruendo un’indebita identità tra militanza di partito e partigianato. Il crollo dell’Unione Sovietica e lo scioglimento del Partito comunista italiano hanno significato dal punto di vista storiografico una rimessa in discussione del mito della “Resistenza rossa”. Sempre più negli ultimi decenni ci si è focalizzati sulle “altre resistenze”: quelle degli azionisti, dei militari, quelle apolitiche o prepolitiche dei civili, anche quelle dei liberali. Questo è sicuramente opportuno. Tuttavia se è vero che la Resistenza ha vinto perché è stata un fenomeno unitario e di massa, è vero anche che i comunisti sono una forza trainante nel movimento di Liberazione. Già durante il Ventennio fascista il Pci, a differenza di altri partiti, era riuscito a mantenere i contatti tra i militanti, grazie a un centro interno clandestino e a una struttura organizzativa all’estero sostenuta dall’Urss. All’indomani della caduta del regime i comunisti sanno sfruttare questo vantaggio e sono i primi a passare all’azione. Già nell’ottobre 1943 vengono costituite le prime brigate d’assalto Garibaldi, guidate da un comando generale diretto da Luigi Longo e Pietro Secchia. Da subito le formazioni comuniste si qualificano come “d’assalto”, cioè pronte all’azione e decise a rifuggire ogni attendismo. L’intitolazione a Garibaldi rimanda alla Guerra di Spagna (dove un Battaglione con questo nome aveva riunito importanti antifascisti italiani come Guido Picelli, Ilio Barontini o il piacentino Antonio Carini), ma si appropria anche di un simbolismo nazionale e risorgimentale. Alla Liberazione le Brigate Garibaldi sono 575, distribuite in tutta l’Italia centro-settentrionale, e si stima che i garibaldini rappresentino più di un terzo dei combattenti della Resistenza.

La caratteristica principale delle Garibaldi è la presenza nelle formazioni non solo di un comandante, che dirige le azioni militari, ma anche di un commissario, che deve educare dal punto di vista politico e culturale i combattenti, molti dei quali non hanno esperienze di militanza comunista. La dirigenza del Pci decide infatti di non precludere a nessuno l’arruolamento nelle Garibaldi, e anzi in diverse occasioni sceglie di sfruttare le competenze di persone esterne al Partito, come militari di professione o intellettuali. Grazie all’opera dei commissari politici, nelle Brigate Garibaldi si mette in atto una veloce “educazione sul campo” di tutti i giovani che affluiscono nelle fila comuniste durante la Resistenza. Ad attrarre è la linea decisa, il fatto che i comunisti erano gli oppositori storici del fascismo, ma anche il fascino dell’Armata Rossa, che soprattutto dopo la battaglia di Stalingrado diventa un mito per i partigiani italiani. Le notizie militari tratte dai giornali, così come elementi di dottrina marxista, vengono problematizzati e discussi nelle formazioni durante “l’ora politica”, in cui il commissario deve sfruttare la propria cultura per intavolare con partigiani e popolazioni della montagna discorsi semplici e comprensibili, in grado di preparare alla dialettica democratica. La Resistenza è per i comunisti italiani uno snodo fondamentale. La “svolta” annunciata a Salerno nel marzo 1944 dal segretario Palmiro Togliatti segna un cambiamento di linea politica: dall’intransigenza e dal settarismo, la dirigenza del Pci si getta anima e corpo nella Resistenza unitaria e nazionale, accettando di collaborare con tutte le forze politiche, anche quelle più conservatrici e borghesi. Il Partito che esce dalla lotta di Liberazione è a tutti gli effetti un “partito nuovo”. Dalle poche migliaia di iscritti clandestini dell’estate 1943 si passa a 1.770.896 tessere alla fine del 1945, e il ruolo cruciale che i comunisti hanno esercitato nella Resistenza è l’elemento decisivo di questa stupefacente crescita. Il Pci passa da partito di quadri a partito di massa, da partito proletario a partito capace di dialogare con la piccola borghesia orfana del fascismo, da piccolo partito clandestino a più grande partito comunista nel blocco atlantico.

Diversi, ma compagni

La Brigata Stella Rossa

Il percorso intende immergersi nella storia di una delle brigate partigiane più transnazionali e combattive della Resistenza piacentina. La 60a Brigata Garibaldi “Stella Rossa” unisce uomini e donne diversi per provenienza geografica e idee politiche, uniti da un antifascismo profondo e viscerale. Le origini della Brigata affondano le radici nella scelta, quasi naturale, di diversi contadini e operai della Val Nure di non presentarsi alla chiamata alle armi della Repubblica di Salò. Gente del posto, ribelli quasi per natura, come Giuseppe Posatini “Pinei ad Biana” e Alberto Rossi “Barton di Sghé”, i cui nomi di battaglia sono più i tradizionali soprannomi della montagna. Bande che sorgono sparse, aiutate dalla natura selvaggia della valle e che iniziano a dare del filo da torcere ai presidi della Gnr. Le idee sono diverse. C’è chi indossa un fazzoletto rosso al collo, ma c’è anche un gruppo di antifascisti cattolici, cresciuti nella parrocchia di San Giovanni a Bettola e guidati dallo studente Gian Maria Molinari. Il punto di svolta è l’arrivo in Val Nure di Milič Dušan “Montenegrino”, un ufficiale jugoslavo fuggito dal campo di concentramento di Busseto. Nella Jugoslavia occupata dagli italiani, Dusan, di professione maestro, si era unito al movimento di liberazione e conosceva bene le tattiche di guerriglia. L’invio del “Montenegrino” in Val Nure è deciso dal Partito comunista di Piacenza, che ritiene la valle ‒ collegata a Piacenza attraverso la littorina ‒ la base ideale per la lotta clandestina, dove inviare uomini e armi. Così nei primi mesi del 1944 nasce la 60a Brigata Garibaldi “Stella Rossa”. Al gruppo, da subito risoluto e temuto dai fascisti, si uniscono presto Tresham Gregg “Ganna” e Archibald Donald Mackenzie “Mack”, ufficiali britannici fuggiti dal campo di concentramento di Veano. Grazie a loro il gruppo della Stella Rossa riesce a mettersi in contatto con le missioni angloamericane e ricevere rifornimenti di armi e viveri aviolanciati. Grazie all’esperienza militare e alla conoscenza del territorio dei suoi comandanti, la brigata partigiana internazionale è protagonista nell’estate 1944 dei combattimenti per la conquista della Val Nure, che diviene sede della Repubblica di Bettola, importante esperienza di autogoverno partigiano. Il grande rastrellamento invernale disperde i combattenti della Stella Rossa, e pone in un certo senso fine alla vita della formazione. Nella riorganizzazione delle bande a marzo 1945 i comandi partigiani decidono di abolire le intitolazioni troppo politicamente connotate, per favorire l’unità e la coesione del movimento di Liberazione. Nonostante questo, i nomi degli eroi della 60a Brigata Garibaldi continuano a vivere, e due delle brigate partigiane valnuresi saranno dedicate proprio a Gian Maria Molinari e al capitano Mack, caduti nella lotta. Inoltre, il comando delle brigate partigiane (raccolte sotto il nome di Divisione Valnure) viene affidato al Partito comunista, e la Val Nure rimane la più rossa delle valli piacentine, accanto alla val d’Arda a guida democristiana, e alle valli Trebbia e Tidone in mano alle formazioni gielliste.

 

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