SL10 – Il sentiero del Grande Rastrellamento

L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e brevi tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli medi, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in buona forma fisica. Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione. A monte dell’abitato di Rompeggio il sentiero prevede il guado del fiume Nure, ed è pertanto sconsigliato nei periodi di forte piovosità o a ridosso di forti temporali.

Si tratta di un percorso ad anello che inizia e si conclude nell’abitato di Rompeggio di Ferriere, nei pressi della chiesa di S. Michele Arcangelo (dove è possibile parcheggiare).

Seguiremo i segnavia CAI, che ci accompagneranno per tutto l’itinerario: il percorso si sviluppa infatti per la prima parte sul sentiero 019, fino all’abitato di Selva, da cui si prosegue per un breve tratto sul sentiero 005 e poi sul sentiero 017 fino a Pertuso, dove si ritrova il sentiero 019 per tornare a Rompeggio. Il passaggio tra i diversi sentieri CAI è contrassegnato dalla caratteristica segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina. Nei centri abitati sono presenti punti acqua ed esercizi pubblici.

Difficoltà
Medio
Livello
Escursionistico
Lunghezza
9 km
Durata
4 ore al netto delle soste

Inizio/Fine
Rompeggio di Ferriere (PC) - Rompeggio di Ferriere (PC)
Dislivello salita
700 m
Dislivello discesa
700 m

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Tra il silenzio della montagna e l’eco degli spari

Il sentiero del Grande Rastrellamento si sviluppa ai piedi di alcune delle più alte cime dell’Appennino piacentino, tra borghi silenti, ruscelli di montagna e antichi mulini, che consentono di immergersi – specie nei mesi invernali ‒ nell’eco dei silenzi e degli spari di quei tragici giorni del gennaio 1944. Il percorso ad anello tocca quattro frazioni dell’alta Val Nure (Rompeggio, Retorto, Selva di Ferriere e Pertuso) e offre suggestivi paesaggi fatti di antichi borghi, muretti in sasso e panorami verdeggianti, che compensano la fatica di un discreto dislivello. L’escursione parte dalla parrocchia di Rompeggio, dove si trova un comodo parcheggio. A poche centinaia di metri, è possibile visitare il cippo commemorativo dedicato a Gian Maria Molinari, guida ideale di questo percorso. Già da Rompeggio è possibile osservare le cime che orientano il cammino: di fronte i monti Nero e Bue, e sulla destra il Carevolo. Il percorso attraversa l’abitato di Rompeggio seguendo il sentiero CAI 019, che procede in leggera discesa verso il torrente Nure fino a raggiungere il guado. Una volta attraversato il Nure, si segue la ripida mulattiera fino a Retorto, nel tratto di maggior salita del giro. Attraversata la frazione si prosegue sulla sinistra salendo fino alla strada provinciale che, una volta attraversata, permette di riallacciarsi al tratto di sentiero che conduce all’abitato di Selva di Ferriere. È questo il punto più alto dell’escursione, che tocca quota 1110 metri. Da Selva imbocchiamo per un breve tratto il sentiero CAI 005 e poi il sentiero CAI 017 in direzione di Pertuso. Il percorso procede in un saliscendi alternato da alcuni semplici guadi che attraversano i ruscelli che, più a valle, si congiungono a formare il Nure. Il bosco di faggio, nel suo improvviso diradarsi, ci mostra un bello scorcio del versante nord del Monte Ragola, che appare imponente «bastione naturale in prospettiva ariosa», come canta Giovanni Lindo Ferretti. Il sentiero giunge poi nell’abitato di Pertuso, dove è presente un punto acqua. Nella frazione è presente anche una lapide posta dall’Anpi per commemorare il “Barba” e i suoi partigiani lì catturati. Da Pertuso il percorso ritrova il sentiero 019 e prosegue per una mezz’ora in discesa fino a Rompeggio, per fare ritorno al punto di partenza.

L’ora più buia della Resistenza

«Fu l’unica volta che ebbi davvero paura durante la guerra. Era evidente che eravamo in trappola: mi ero sempre figurato un centinaio di uomini che ti rastrellano, diciamo duecento; ma qui era tutto pieno dappertutto. In principio si aveva il senso di avere tedeschi davanti e spazio alle spalle; ma poi questa impressione andò a farsi benedire, si sparava anche dietro di noi.  La cosa più brutta dei rastrellamenti era la certezza di non poter essere fatti prigionieri. Se andava male, andava male in un solo modo». Come ben descrive Luigi Meneghello nel romanzo I piccoli maestri, i rastrellamenti sono l’arma più potente che le forze naziste mettono in campo per combattere le bande partigiane. In maniera inaspettata e fulminea, la zona che si intendeva liberare dalla scomoda presenza dei resistenti veniva circondata da un numero ingente di uomini e mezzi. I rastrellatori procedevano poi ad una perlustrazione sistematica di case, boschi, cascine, alla ricerca di fuggiaschi e imboscati. È il momento più buio descritto in tutte le cronache della Resistenza. I partigiani sono inermi, costretti in una stasi imposta che mette a dura prova i nervi. La salvezza si cerca in “buche”, nascondigli angusti scavati sottoterra o ricavati nei luoghi più improbabili, dove stare immobili per intere giornate, facendo affidamento sulla popolazione. Sono soprattutto le donne a portare cibo e notizie, organizzando reti di allerta e salvataggio. Il rastrellamento rappresenta il peggior incubo anche per i civili, che vengono interrogati alla ricerca dei “banditi”, radunati e minacciati nelle piazze. Case e cascine sono date alle fiamme e, in un clima di caos e paura, partigiani e valligiani sono vittime di uccisioni e di eccidi. L’utilizzo di cani in grado di fiutare nascondigli aumenta la paura e la sensazione di accerchiamento. I rastrellamenti mietono numerose vittime tra le fila della Resistenza, e aprono lacerazioni all’interno delle formazioni. In più di un’occasione si pensa che combattendo in modo più compatto e coordinato si sarebbe potuta frenare l’avanzata nemica, e i Comandi unici vengono investiti da critiche e diffidenze per la loro incapacità di organizzare un’efficace risposta al rastrellamento. In realtà, la disparità di uomini e mezzi rende quasi impossibile opporsi ai rastrellatori, e mette drammaticamente in luce i  limiti tecnici e militari dei partigiani. Pensata come un movimento di guerriglia, veloce e predisposta al mordi-e-fuggi, la Resistenza fatica a mantenere la posizione, conquistare in maniera stabile porzioni di territorio e ad opporsi frontalmente ad un nemico più potente ed equipaggiato.

I comandi tedeschi utilizzano in diverse occasioni le forze militari disimpegnate dal fronte per riprendere il controllo di zone strategicamente decisive, nelle quali la presenza partigiana rappresentava una spina nel fianco. Nell’estate 1944 diversi rastrellamenti “chirurgici” colpiscono aree ad alta densità partigiana. Sull’Appennino tosco-emiliano, considerato retrovia della Linea Gotica da ripulire e mettere in sicurezza, si abbatte l’operazione Wallenstein. L’obiettivo è colpire la Resistenza, ma anche deportare forza-lavoro: quasi duemila civili vengono catturati e inviati in Germania, dove diventano “schiavi di Hitler”, costretti a lavorare in industrie e aziende tedesche. Ancora più violenti sono i rastrellamenti dell’inverno 1944-45, che traggono vantaggio dall’affievolirsi dell’offensiva Alleata sulla linea del fronte, annunciata dal famoso Proclama Alexander. In ottobre, Kesselring lancia una “settimana eccezionale di lotta alle bande”, lasciando libertà ai comandi locali sulla scelta degli obiettivi. In questa discrezionalità si dispiega spesso l’azione dei collaborazionisti della Repubblica Sociale Italiana, che segnalano la presenza di bande, danno informazioni ai tedeschi, accompagnano le truppe nei rastrellamenti. In questa fase spietata e claustrofobica del conflitto si consumano gli episodi più feroci e sanguinosi della lotta di Liberazione, e interi distaccamenti vengono catturati e uccisi. In quella che è a tutti gli effetti l’ora più buia della Resistenza, si dispiegano però anche i più straordinari episodi di solidarietà e di coraggio.

Tra la neve e i mongoli

Il grande rastrellamento invernale

Tra novembre 1944 e gennaio 1945 l’Appennino piacentino è investito da un imponente rastrellamento, che parte con una manovra a tenaglia dalle Valli Trebbia e Tidone e spazza via le formazioni partigiane. Un evento tragico che rimane scolpito nelle memorie anche per la presenza dei “mongoli”, che accanto alle truppe tedesche e italiane si distinguono nelle operazioni repressive. Si tratta dei soldati della 162a Divisione Turkestan, composta dai “battaglioni dell’est”, formazioni della Wehrmacht che raccoglievano ex prigionieri di guerra catturati sul fronte orientale e disposti a collaborare, disertori dell’Armata Rossa e diversi anti-bolscevichi, provenienti dalle fila dei movimenti nazionalisti e indipendentisti. La loro provenienza è molto variegata: ci sono armeni, azeri, georgiani, uzbeki, kazaki, nord-caucasici, turkmeni e tatari del Volga. Popoli, lingue, usi e fattezze stranianti per le popolazioni delle valli piacentine, che denunciano episodi di tortura e stupro. In Val Nure, gli uomini della Turkestan arrivano a dicembre, con l’obiettivo di riprendere Bettola, che nell’estate era stata capitale di un’ampia zona libera partigiana. I rigori dell’inverno e la natura selvaggia e aspra della valle rendono impossibile lo sganciamento delle formazioni, e molti si ritrovano a vagare da soli o in piccoli gruppi in una montagna dove un irreale silenzio si alterna al fragore degli spari.

Giuseppe Panni “Pippo”, comandante della 61a Brigata Mazzini, ricorda con terrore e riconoscenza i giorni del grande rastrellamento invernale. «Era impressionante il vuoto della montagna, che sembrava un immenso cimitero di vivi. Nei nostri continui spostamenti attraverso i monti non incontravamo nessuno, né borghesi né partigiani sbandati come noi. I paesi e i villaggi sembravano morti, non davano segni di vita. Guardandoli da lontano si vedevano solo comignoli fumare, qualche donna anziana che si muoveva davanti l’uscio di casa o della stalla, ma non un uomo. Eppure, la gente c’era e viveva. Fummo accolti con amicizia dagli abitanti e, per non gravare, ci dividemmo uno per famiglia». Ma non tutti ce la fanno. A Pertuso di Ferriere viene catturato un intero distaccamento partigiano, guidato dal comandante Antonio Poggioli “Barba”, antifascista di Cogno San Bassano che tra i primi aveva organizzato una banda partigiana in Val Nure, che viene imprigionato nelle scuole di Bettola per alcuni giorni prima di sparire nel nulla. Del gruppo di sbandati fa parte anche Renato Raiola “Romeo”, Comandante della 142a Brigata Garibaldi, che verrà fucilato insieme a venti partigiani il 12 Gennaio 1945 a Bettola, in località  Rio Farnese, dove oggi sorge un monumento commemorativo. Negli stessi giorni, a Rompeggio, viene ucciso Gian Maria Molinari, studente universitario, antifascista cattolico e vicecomandante del “Settore Valnure”, al quale dopo la guerra è conferita la Medaglia d’argento al Valor Militare.

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