SL8 – Il sentiero della banda di Rigolo

L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e brevi tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli medi, adatto a tutte le persone abituate a camminare nella natura e in buona forma fisica. Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione. Si tratta di un percorso ad anello che inizia e si conclude presso l’abitato di Rigolo Chiesa. Il percorso ricalca esattamente “Il salto del lupo”, tracciato dall’associazione “Trail Valley” che ringraziamo per la collaborazione. Durante l’intero percorso si segue quindi la preziosa segnaletica di “Trail Valley”che accompagna il tracciato de “Il salto del lupo”.

È presente un punto acqua alla partenza, mentre nel prosieguo si consiglia di fare riferimento ai centri abitati che l’itinerario attraversa.

Difficoltà
Medio
Livello
Escursionistico
Lunghezza
9 km
Durata
3,5 ore al netto delle soste

Inizio/Fine
loc. Rigolo Chiesa - Bettola (PC)
Dislivello salita
500 m
Dislivello discesa
500 m

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Nelle gole di Rigolo, nella culla della Resistenza

 

Il percorso, che inizia dalla frazione di Rigolo Chiesa, è di una bellezza unica, dovuta anche alla particolarità di questa valle chiusa, vero e proprio angolo nascosto dell’Appennino, a pochi chilometri da Bettola. Boschi abbarbicati su ripidi versanti montuosi, selvaggi e inospitali, d’un tratto cedono il posto ad una piana soleggiata, dove le antiche case in sasso, strette le une alle altre, rimandano ad un lontano passato, in cui queste valli erano popolate da famiglie numerose, che con ingegno e fatica sapevano vivere di quel poco che la montagna concedeva loro. Ed è qui, che i primi “ribelli” della Val Nure si rifugiarono, in quel terribile e confuso autunno del 1943. Dal parcheggio della chiesa di Rigolo, dove è possibile parcheggiare, risaliamo per poche centinaia di metri fino a Rigolo Scoglio, dove un secco tornante ci porta su di una ripida mulattiera che sale decisa per un bel tratto, guadagnando quasi l’intero dislivello del percorso. Da quel momento il percorso si fa decisamente più morbido e dopo aver preso a sinistra in un crocevia ben indicato, ci porta tra le case sparse di Roncolo, fino alla dimora estiva del pittore paesaggista Stefano Bruzzi, e il successivo oratorio di proprietà della famiglia. Il percorso prosegue quindi con un falsopiano che conduce velocemente all’abitato di Predalbora. Siamo a 935 m sul livello del mare. La frazione, tipico agglomerato di case in sasso, prevalentemente abbandonate, conserva un grazioso oratorio risalente al 1703, e gode di una splendida visuale sulla valle del Restano e i monti circostanti. Tenendo la sinistra uscendo dall’abitato, si prende la via del ritorno verso Rigolo, quasi tutta in discesa. La traccia è sempre ben evidente e prevede alcuni bivi ben indicati dalla segnaletica di “Trail Valley” de “Il salto del lupo”. In meno di un’ora si giunge alla strada asfaltata e si risale quindi, sfiorando la frazione di Restano, fino a ritornare al punto di partenza. Il sentiero è percorribile tutto l’anno ma è con l’esplosione autunnale di colori del foliage, che percorrerlo rappresenta un’esperienza davvero entusiasmante.

All’alba della Resistenza. Le prime bande partigiane

Nelle cronache partigiane capita spesso che i mesi dell’autunno 1943 ‒ i primi momenti della nascita della Resistenza ‒ siano narrati in maniera piuttosto sbrigativa e fumosa. Si tratta di momenti di grande incertezza e precarietà, il cui il racconto non corrisponde affatto all’immagine ‒ organizzata, ordinata ed equilibrata ‒ che il movimento partigiano intende dare di sé nel dopoguerra. Nei giorni successivi l’8 settembre 1943 sono diverse le anime che contribuiscono a fare sorgere le prime embrionali bande partigiane. Una prima matrice è quella militare. Sono militari di leva o di carriera, che fortunosamente riescono a sfuggire alla cattura e alla deportazione in Germania, spesso a piccoli gruppi. Molti salgono sulle montagne più vicine alle caserme, ma chi può cerca di avvicinarsi a casa, alla ricerca di luoghi familiari e rassicuranti. La seconda componente pronta a mobilitarsi è quella degli antifascisti, che già all’indomani alla notizia della destituzione di Mussolini il 25 luglio, aveva iniziato a organizzarsi e costruire piani di lotta. I primi a muoversi sono i comunisti e gli azionisti, che rifiutano da subito ogni attendismo. Al loro interno avevano individuato i più esperti nell’arte della guerra, che avevano combattuto nelle Brigate Internazionali in Spagna, o prestato servizio nelle fila dell’esercito. Molti antifascisti avevano animato manifestazioni all’indomani della caduta del regime, erano ormai noti come oppositori, e sapevano che l’occupazione tedesca rappresentava per loro un pericolo e una minaccia. La terza forza che alimenta le prime bande sono gli ex prigionieri di guerra russi, slavi, e in generale alleati che, nella caotica fase di sbandamento delle forze armate italiane, erano riusciti a fuggire dai campi di concentramento sparsi in tutto il Paese. Spesso sono militari, molti negli anni precedenti hanno già combattuto nelle fila dei movimenti di resistenza che si erano opposti all’occupazione fascista. Sono i più abili nella guerriglia e spesso diventano comandanti leggendari e riconosciuti. Insomma, il vuoto istituzionale che segue la proclamazione dell’armistizio, la repressione tedesca, e poi la chiamata alle armi della Repubblica sociale italiana, danno presto vita a un composito pulviscolo di irregolari, per i quali le montagne rappresentano il nascondiglio più accessibile e sicuro. Al di là della genesi differente, queste prime bande hanno alcune caratteristiche comuni. In una fase in cui i vincoli di partito sono ancora labili, le fedeltà militari sembrano sgretolarsi, i legami organizzativi sono inesistenti, e i progetti di lotta ancora indefiniti, le prime bande sono unità autonome e fortemente localistiche, che si riconoscono nella figura di un capo carismatico che, per carattere o esperienza, è capace di tenere unito il gruppo, di portarlo in salvo nei momenti di pericolo, di motivarlo. Non di rado l’identità del gruppo è legata proprio alla figura del suo creatore e comandante, o al suo luogo genetico, e viene indicato, per cercare esempi piacentini, come ‘banda Remigio’ o come ‘banda di Rigolo’. Al netto di idee e orientamenti politici, spesso ancora sfumati, l’esigenza primaria di questi nuclei è la necessità istintiva di proteggersi collettivamente, di restare in gruppo per aumentare le possibilità di sopravvivere. Tuttavia, l’inesperienza e la mancanza di reti di aiuto spesso si rivelano fatali: molte di queste prime bande hanno vita breve, sono facili da individuare e si disperdono dopo i primi rastrellamenti o dopo la cattura del comandante. Altre riescono invece a tenere duro e allargarsi, accogliendo nuove reclute, generalmente giovani del posto che non intendono presentarsi alla chiamata alle armi della Rsi, che la memorialistica chiama “valligiani”. Sono ragazzi impreparati a combattere, spesso mossi dalla volontà di non allontanarsi troppo dalla casa materna, dal campo, dalla stalla, dalle bestie, da una comunità che rappresenta tutto il loro mondo. Con il passare dei mesi, il modello organizzativo per bande e lo spontaneismo ribellistico dei primi mesi della Resistenza, entrano in crisi. Nell’estate 1944 le esigenze del movimento partigiano sono ormai diverse da quelle dei primi mesi. La liberazione di Roma, lo sbarco in Normandia, la liberazione di ampie “repubbliche partigiane” in tutta l’Italia settentrionale, esigono uno sforzo diverso, coordinato e omogeneo. I personalismi, gli spazi di autonomia, l’indisciplina e la refrattarietà all’inquadramento di molte bande inizia ad apparire un ostacolo per la creazione di un esercito partigiano vero e proprio. Al localismo dei primi mesi subentrano logiche di portata più ampia, alle quali i primi recalcitranti capibanda sono chiamati ‒ non senza attriti ‒ a sottomettersi. Nascono divisioni e Comandi unici che coordinano intere zone operative, e le bande perdono spazi di autonomia. A molti dei primi capi, in virtù del loro prestigio, viene riconosciuto un ruolo di comando, ma in tutta l’Italia partigiana si registrano casi di bruschi allontanamenti, lotte intestine, scontri tra coordinamenti sovralocali e bande orgogliose della propria indipendenza e restie a accettare istruzioni dall’alto. Resta comunque il coraggio e la tenacia dei primi partigiani, sorti dal nulla in mancanza di direttive e istruzioni. Anche a Piacenza, all’indomani dell’armistizio, borghi e paesi si animano di piccoli gruppi. In questo senso la Val Nure appare ben presto a molti il posto giusto per nascondersi. La più aspra e incontaminata delle vallate piacentine, collegata alla città grazie alla littorina, vede da subito un brulicare di bande di genesi diversa. Due piccoli gruppi di soldati sbandati fanno base a Rigolo e a Costa di Groppo Ducale, dove opera  Giancarlo Finetti di San Giorgio, presto individuato e ucciso dalla polizia militare tedesca. Simile è la genesi del gruppo di Biana guidato da Pino Posatini “Pinei” e della banda Maschi, guidata dai fratelli Severino e Agostino. Antifascisti della città raggiungono Nicelli, guidati dall’avvocato Metrodoro Lanza “Carlo Martello” e da Bianca Pomarelli. Inoltre, il Cln di Piacenza individua da subito una base a Peli, dove ‒tramite la famiglia Baio ‒ vengono inviati armi e uomini. Ad aggregare in Brigate questi gruppi sparsi saranno Milič Dusan “Montenegrino”, ex prigioniero e militante del movimento di liberazione jugoslavo, che nel 1944 fonda la 60ª Brigata Garibaldi “Stella Rossa”, e Ernesto Poldrugo “Istriano”, che nella 59ª Brigata Garibaldi riunisce diverse bande tra il Parmense e il Piacentino.

Il presagio nel nome. Sui passi di Ernani Locardi

Nella Spagna del XVI secolo Don Giovanni di Aragona, nobile spodestato, cambia il proprio nome in Ernani, si mette a capo di un gruppo di banditi e cerca di sollevare una rivolta per riabilitare il proprio onore. Figura tragica di ribelle nobiluomo che combatte per riscattare le ingiustizie subite, Ernani è protagonista di una celebre opera di Giuseppe Verdi. Non ci è dato di sapere se pensano a questa storia drammatica i coniugi Giuseppe e Adele Locardi, appassionati melomani, quando danno l’insolito nome Ernani al figlio appena nato, che completa la famiglia dopo la nascita di Norma e Carmen. Anche Ernani Locardi però sarà il leggendario capo di un gruppo di ribelli e come il suo omonimo avrà un destino tragico,  alla sua morte verrà salutato dai compagni come “il primo partigiano della Val Nure”. Ernani “Nani”, nasce a Bettola nel 1921 in una famiglia di commercianti di legname. Frequenta i primi anni delle superiori e poi comincia a lavorare con il padre. Cresce nel gruppo di giovani cattolici che si raccoglie nella chiesa di San Giovanni, intorno a monsignor Ettore Morisi, parroco di idee antifasciste. L’8 settembre 1943, alla proclamazione dell’armistizio, è militare di leva negli alpini, di stanza a Susa. Qui da subito si rivela un leader naturale, coraggioso e spericolato, deciso ad ogni costo a sfuggire al disarmo e alla cattura. Sottrae alcune armi, raduna un gruppo di compagni e li guida in una fuga rocambolesca, deciso a condurli nei boschi della sua Val Nure. Nei pressi di Villar Perosa non esita a gettare una bomba contro un posto di blocco tedesco, in quella che ‒ secondo il compagno di fuga Walter Filipponi “Filippo” ‒ è la prima azione che lo battezza alla vita partigiana. Il gruppo riesce effettivamente ad approdare nel Piacentino e decide di porre la base della banda a Rigolo, località isolata e difficile da raggiungere. Il gruppo di Locardi nasce così come un aggregato di giovani soldati sbandati decisi dapprima a sfuggire alla deportazione e poi a non presentarsi alla chiamata alle armi. Come per molte prime bande non è possibile riconoscere una chiara collocazione partitica, ma soltanto una grande sfiducia e diffidenza nei confronti del regime e dell’alleanza nazifascista. Fin dai primi momenti, Ernani emerge come una delle colonne portanti della banda: di poche parole, attento ai compagni, mosso da un coraggio e una volontà di avventura che talvolta sfociano nella spericolatezza. Sua è l’idea, che si rivela vincente, di spostarsi in Val Nure, nei luoghi che conosceva e dove era conosciuto; è lui a spronare i compagni nel pericoloso viaggio e ad aprire la strada. Accanto a lui c’è dall’inizio Antonio Guglieri “Grillo della Musa”, già sergente degli alpini e futuro comandante partigiano, che con Ernani condivide i primi difficili mesi in montagna. Nei racconti dei compagni, Locardi appare agitato da una forte irrequietezza, che lo spinge a declinare gli inviti di chi gli chiede di starsene buono e nascosto in attesa che la confusa situazione politico militare si chiarisca. Nani vuole agire, vuole sparare. Per le prime bande il passaggio all’azione è un momento fatidico e delicato. La mancanza di armi, l’inesperienza, l’assenza di coordinamento, spingono a passi falsi ed errori di valutazione. La differenza di vedute tra chi, come Ernani, vuole prendere subito l’iniziativa e chi ritiene invece che sia meglio attendere, genera pesanti attriti tra bande. In mancanza di reti di contatto fidate, la ricerca di armi è un affare pericoloso, che espone al rischio di delazione. Nel febbraio 1944 Locardi viene individuato e torturato dagli uomini dell’Ufficio Politico Investigativo. Trascorre tre mesi in carcere, prima di essere rilasciato per un fortuito scambio di persona con un altro prigioniero. Subito torna in val Nure dove trova un movimento partigiano più ordinato e numeroso, organizzato nella 59ª Brigata guidata da Ernesto Poldrugo “Istriano”, ufficiale di Marina, di cui Nani diventa il vice. Nonostante la detenzione e le torture lo avessero notevolmente debilitato, è protagonista nell’estate 1944 della liberazione della valle. Chiede e ottiene di guidare una squadra volante della formazione e spesso scende in città, armato di tutto punto, per veloci e spericolate puntate dirette verso polveriere e automezzi nemici. Il 27 giugno 1944 è in prima linea nella battaglia per la liberazione di Farini, nel corso della quale viene ferito. A novembre è protagonista della battaglia del Passo del Cerro quando i partigiani tentano di impedire ai tedeschi di entrare nella zona libera di Bettola. In quell’occasione Ernani si spinge per ben due volte tra le fila nemiche per fare saltare il ponte di Bacchetti che collega Perino con il capoluogo valnurese. Rimane sempre legato al proprio territorio: quando la Brigata dell’Istriano si sposta nel Genovese, Locardi sceglie di continuare a combattere in Val Nure, militando prima nella 61ª Brigata “Mazzini” e poi nella 6ª Brigata “Fratelli Molinari”, ma sempre tenendo vivo fino all’ultimo lo spirito di banda, pochi uomini, un capo impavido e lucido, una grande autonomia dai centri direzionali. Nei giorni della liberazione di Piacenza è in città, e ‒ come ricorda l’amico Gaetano Fontana, studente universitario di Vicenza che aveva seguito Nani già dalla fuga da Susa ‒ «gioca per l’ultima volta il gioco della morte». Il ritorno a casa di Ernani è però tragico: la detenzione, le torture, le ferite, gli stenti della vita in montagna ne hanno minato per sempre la salute. Il 26 marzo 1946 Locardi muore nella sua casa di Bettola. I funerali sono imponenti, con un lungo corteo che attraversa il paese, dietro la bara portata a braccia dagli uomini della sua banda. La stampa sottolinea il tragico epilogo della vita di Ernani Locardi: il primo partigiano della Val Nure e l’ultimo suo caduto, in una lunga liberazione che si trascina ben oltre l’aprile 1945. Come per molti eroi leggendari delle prime bande, avanguardia di un movimento solo in seguito divenuto di massa, di Locardi rimangono poche foto ma resta un quadro indelebile tracciato dal maestro Gino Pancera, primo memorialista della Resistenza valnurese, che lo immortala prima di una delle sue memorabili puntate: «Il Nani meraviglia tutti: è malvestito, sembra un carcerato fuggito da chissà dove; un paio di calzoni a mezz’asta e un mezzo impermeabile formano il suo corredo col torace coperto di sacchetti di dinamite. È matto a scendere in città così conciato, lui così conosciuto dalla polizia fascista. Macché, lui sorride calmo come un bimbo che stia incominciando un gioco».

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