SL5 – Andiamo sul Lama!

L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza media e dislivello impegnativo, adatto principalmente a persone abituate a camminare in natura e in ottima forma fisica.

Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione.

Il percorso (solo andata) incrocia nella parte finale il percorso di un altro “Sentiero della libertà”, il “Sentiero degli Alleati – SL3”, che percorre un anello intorno al Monte Lama.

Si parte da località Gariboia, raggiungibile dal Museo della Resistenza Piacentina, posto nella vicina località di Sperongia di Morfasso (dove è possibile parcheggiare), a circa mezz’ora di cammino.

Inizialmente (e per un lungo tratto, fino alla frazione dei Teruzzi) si segue la segnaletica posta dai volontari del Museo della Resistenza, contrassegnata da una stella con fondo bianco e bordo rosso, o dalle indicazioni SL5. Dall’Oratorio di S.Anna di Teruzzi si segue il sentiero CAI 903 fino ad un bivio dove si prende a destra seguendo nuovamente la segnaletica del Museo della Resistenza, contrassegnata da una stella con fondo bianco e bordo rosso fino al punto di arrivo, presso la stele che ricorda le origini della Resistenza in Val d’Arda.

Per il ritorno a Teruzzi si può ritornare sui propri passi o chiudere un percorso ad anello in entrambe la direzioni. Ci troviamo infatti a quel punto sul sentiero CAI 907, nel mezzo dell’anello del Lama del “Sentiero degli Alleati – SL3”.

  • Andando a destra si segue la direzione corretta dell’anello, salendo nel bosco e raggiungendo velocemente la vetta del Monte Lama, da dove si può ammirare un panorama davvero impagabile. Qui il terreno erboso e pianeggiante al limitare del bosco è l’ideale per una sosta rigeneratrice. Si scende quindi dal versante Nord per una ripida discesa, in fondo alla quale si abbandona il sentiero CAI 907 svoltando a destra e seguendo nuovamente la segnaletica del Museo della Resistenza del “Sentiero degli Alleati – SL3”, contrassegnata da una stella con fondo bianco e bordo rosso, fino a Teruzzi.
  • Andando a sinistra (al contrario rispetto alla normale direzione dell’anello) si segue invece il sentiero CAI 907 fino ai piedi del Monte Castellaccio, dove si prende a sinistra sul sentiero CAI 905, fino a Teruzzi.

Sono presenti lungo il percorso diversi punti acqua. Prima di intraprendere la salita sul Monte Lama, dove non se ne trovano, se necessario si può compiere una leggera deviazione al cimitero di Teruzzi, per rifornirsi prima della salita.

Difficoltà
Facile
Livello
Turistico
Lunghezza
11,5 km
Durata
5 ore al netto delle soste

Inizio/Fine
loc. Gariboia di Morfasso (PC)
Dislivello salita
1000 m
Dislivello discesa
150 m

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Figli di nessuno. Ripercorrendo i passi dei primi partigiani

“Andiamo sul Lama!” è l’ultimo percorso tracciato da Franco Sorenti, la sua ultima fatica. Il sentiero ripercorre i passi dei partigiani in quella fatidica salita sul Monte Lama che segna la nascita della 38a Brigata.

Il percorso parte da Gariboia, località che si può raggiungere agevolmente dal Museo della Resistenza Piacentina (posto nella vicina località di Sperongia di Morfasso, dove è possibile anche parcheggiare), seguendo la caratteristica segnaletica del Museo, contrassegnata da una stella con fondo bianco e bordo rosso. Da Gariboia, invece di proseguire sul fianco della montagna seguendo il “Sentiero di Giovanni lo Slavo – SL1”, si scende a destra per poi guadare il torrente Arda e risalire sul fianco opposto fino ad incontrare la strada asfaltata. A quel punto si sale a sinistra e si segue attentamente la segnaletica del Museo della Resistenza, alternando tratti stradali a tratti di sentiero, fino a raggiungere la frazione di Pedina, dove si tiene la strada “bassa” che costeggia la chiesa e il cimitero. Poco più avanti si arriva in località Salino, dove si trova un importante punto di interesse: l’ex osteria del Peppo, luogo d’incontro dei primi partigiani, fondamentale per la nascita della Resistenza in Val d’Arda. Giuseppe Ongeri “Peppo” e la moglie Giannetta, oltre a indirizzare, nascondere e sfamare i partigiani, custodivano infatti l’apparecchio radio trasmittente con il quale ascoltavano le comunicazioni alleate e le indicazioni per i lanci. Dall’osteria del Peppo si risale a destra fino ad incrociare la SP15, che si percorre salendo verso sinistra fino alla frazione di Rusteghini, dove la si abbandona per salire a destra tra le case nel piccolo borgo, fino ad incontrare e seguire un’antica carrareccia delimitata da muretti a secco. Si sale dolcemente in una piacevole passeggiata, con la visuale aperta sui monti Lama e Menegosa, tra pascoli e boschi, fino a raggiungere località San Biagio e quindi  la strada asfaltata che sale verso i Teruzzi. Giunti all’Oratorio di S.Anna si svolta a sinistra sul sentiero CAI 905 e lo si segue in salita fino ad un crocevia, che si incontra una volta usciti dal bosco, in uno spazio aperto dove si può finalmente ammirare la valle dall’alto. Qui si abbandona il sentiero CAI 905 e si sale a destra seguendo la segnaletica del Museo della Resistenza, contrassegnata da una stella con fondo bianco e bordo rosso, che reca l’indicazione SL5 (mentre SL3 segue a sinistra il sentiero CAI) e si sale fino ad arrivare ai piedi della stele che ricorda la nascita della 38a Brigata Garibaldi e il determinante contributo delle popolazioni della montagna alla lotta di Liberazione.

Dalla renitenza alla resistenza. La stagione delle scelte

Stanchezza della guerra, sfiducia nei confronti del regime, convinzione che il conflitto fosse ormai perso: sono queste le molle che, a partire dal 1943, spingono molti soldati italiani a disertare e molti giovani richiamati alle armi a non presentarsi agli uffici di leva. Dopo l’annuncio dell’armistizio con gli angloamericani, renitenza e diserzione diventano fenomeni di massa. La scelta di abbandonare le fila dell’esercito indica, in maniera inequivocabile, il dissenso crescente degli italiani nei confronti del fascismo. Fin dai primi mesi della sua costituzione, la Repubblica sociale italiana combatte una vera e propria ‘battaglia per l’esercito’, con una serie di bandi di chiamata alle armi che toccano progressivamente tutte le classi di leva fino a quella del 1926. Mussolini e i suoi vivono una crisi ormai inarrestabile e disporre di un esercito combattivo e determinato sembra l’unico modo di accreditarsi come interlocutori credibili agli occhi dell’alleato tedesco e come rappresentanti legittimi dello Stato italiano. Da subito, però, le adesioni ai bandi di chiamata alle armi sono ben al di sotto delle aspettative. Scatta una caccia alle reclute combattuta dapprima con le armi della propaganda, via radio e tramite affissioni murarie, con i celebri e accattivanti manifesti di Gino Boccasile. Velocemente  i toni si fanno più severi e minacciosi: misure punitive ‒ come la sospensione della tessera annonaria, l’allontanamento dal lavoro, l’arresto dei genitori ‒ vanno a colpire anche le famiglie di chi non si presenta alle armi, facendo crescere un senso di ingiustizia e di sfiducia. La repressione culmina nel famigerato “bando Graziani” che introduce la fucilazione per renitenti e disertori e suona come un ultimatum. Anziché dare una base al nuovo stato fascista, la chiamata alle armi di Salò fa esattamente il contrario: dà una base imponente all’esercito antifascista. Per sottrarsi a bandi, infatti, molti scelgono di salire in montagna. Spesso, le prime bande di ribelli nascono proprio così, come nuclei di autodifesa nei quali gli irregolari si riuniscono, si danno manforte, si sostengono nella clandestinità. Anche le comunità locali si stringono a difesa dei giovani chiamati alle armi: in tutta Italia si registrano assalti ai municipi e distruzione dei registri di leva, manifestazioni antimilitariste, aggressioni ai militi di Salò incaricati del reclutamento. Insomma, i bandi di chiamata alle armi creano le condizioni pratiche e morali per la nascita della Resistenza e rendono l’opposizione al fascismo ‒ fino ad allora appannaggio di poche illuminate minoranze ‒ un fenomeno di massa. Per molti, specialmente i più giovani, l’antifascismo non è dunque tanto un punto di partenza ma di arrivo. I mesi della lotta partigiana rappresentano un periodo di rapida maturazione democratica, di apprendistato della politica, che fa crescere una impetuosa volontà di partecipazione. Spesso si sale in montagna sulla spinta di un moto dell’animo burrascoso ma pre-politico: per non combattere più la guerra fascista, per ribellione, per rifiuto della retorica fascista, per spirito di avventura. Come ricordano molte cronache partigiane, l’ingresso nella Resistenza è segnato anche da una certa dose di casualità ed è dettato da amicizie, reti famigliari, volontà di non allontanarsi troppo da luoghi conosciuti e cari. Come scrive Italo Calvino: «Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si ritrova dall’altra parte». Tuttavia, se spesso si entra in una banda piuttosto che nell’altra per una serie di irripetibili congiunture, con i partigiani si rimane per scelta, una scelta che va rinnovata giorno dopo giorno. Non presentarsi ai bandi, disertare, nascondersi, e poi armarsi e combattere: sono tutti comportamenti ad alto rischio, lontani dalla neutralità e dall’imboscamento. E presto la durezza della repressione fascista rende chiaro anche ai meno avveduti quali sono i pericoli mortali che corre chi rifiuta di allinearsi alle direttive di Salò. È necessario allora saltare definitivamente la barricata, compiere una scelta, diventare partigiani.

A partire dagli anni Novanta, grazie al lavoro di Claudio Pavone, la particolare scelta che sta alla radice del partigianato, il passaggio dalla renitenza alla Resistenza, è stata al centro della riflessione degli storici. Per Pavone, il vuoto di autorità statale appare inizialmente a molti una disgrazia, ma in realtà si rivela un’opportunità, l’opportunità di scegliere e di prendere le distanze dal fascismo. Infatti: «nelle situazioni di normalità non è necessario prendere continuamente posizione a favore del sistema. Ma la necessità di consentire, o dissentire, diventa impellente quando il sistema scricchiola, il monopolio della violenza statale si spezza e gli obblighi verso lo Stato non costituiscono più un sicuro punto di riferimento per i comportamenti individuali». Per la prima volta, nella Resistenza, gli italiani vivono un’esperienza di disobbedienza di massa, tanto più rilevante per una generazione cresciuta per ‘credere, obbedire e combattere’. La crisi del fascismo e i pressanti bandi di chiamata alle armi spingono a una scelta che si rivela fondamentale per chi la vive e fondante del nuovo stato democratico. La volontà di sottrarsi alla chiamata alle armi, di non unirsi all’esercito nazifascista, non è dettata da vigliaccheria o opportunismo ma assume presto il significato più profondo di un atto cosciente di ribellione, primo passo verso la Resistenza.

Spontaneità e organizzazione. Il momento della scelta in Val d’Arda

Nell’autunno 1943 in Val d’Arda nascono diverse piccole bande. Sono gruppi sparuti di irregolari, che si aggregano intorno alle figure di capi carismatici e fanno base dove qualcuno è pronto a offrire ospitalità e supporto. A Settesorelle ci sono gli ex prigionieri iugoslavi evasi dal campo di Cortemaggiore guidati da Giovanni Grcavaz, tra i primi a salire in montagna dopo l’armistizio. A Monastero di Morfasso disertori e renitenti, per lo più gente del posto, si aggregano nella formazione di Pietro Inzani “Aquila Nera”, tenente degli alpini. A Sperongia i ribelli trovano rifugio nell’osteria di Cà Ciancia e nella scuola adiacente la chiesa, guidati da Italo Croci “Dante” e dal futuro comandante di Divisione Giuseppe Prati. La valle, specie nelle sue zone più alte, è tutta un brulicare di uomini. Si tratta però di gruppi scollegati, contraddistinti da una forte autonomia, che faticano trovare una linea comune e una strategia coordinata. A dare direzione e unità ai ribelli di Val d’Arda è Vladimiro Bersani “Paolo Selva”, avvocato e capitano dell’Esercito. Nato nel 1906 a Lugagnano, Bersani ha tutte le carte in regola per diventare un comandante riconosciuto. All’esperienza militare unisce una buona istruzione, alla conoscenza del territorio somma le capacità strategiche. Si era avvicinato al Partito comunista all’indomani della caduta del regime: una scelta tardiva, ma convinta, risoluta e pragmatica. Presto, vinte le diffidenze di cospiratori di vecchia data, l’avvocato lugagnanese viene nominato dal Cln responsabile militare. In questa veste nella primavera 1944, Bersani sale stabilmente in Val d’Arda, con l’intento di aggregare le bande spontanee nate nei mesi precedenti in una Brigata Garibaldi, la prima nel Piacentino. Non è un compito semplice. Si tratta di vincere le diffidenze, di superare le rivalità tra capibanda, di dosare gli spazi di autonomia da lasciare ad ogni gruppo. Si tratta di un’operazione di omogeneizzazione che inserisce l’attività frazionata e precaria dei diversi gruppi di ribelli in un progetto di lotta coordinato e articolato. Grazie al suo carisma, Bersani riesce nell’impresa, e organizza le forze in gruppi e distaccamenti. Sempre più motivati e pronti allo scontro, i ribelli della Val d’Arda decidono di allestire un quartier generale dove riunirsi, addestrare le reclute che affluiscono sempre più numerose sotto la pressione dei bandi di chiamata alle armi, e organizzare la ricezione di armi aviolanciate dagli angloamericani. La scelta ricade sul Monte Lama in virtù della sua caratteristica sommità pianeggiante. È quello il luogo dove i ribelli della Val d’Arda concentreranno le proprie forze. La notte del 16 aprile 1944 si danno appuntamento a Gariboia, nella casa dell’antifascista Dino Bergonzi “Kirov”. Sono una trentina, tra i più risoluti, e provengono da tutti gli angoli della valle. Quando la luna è alta nel cielo, inizia la salita. Racconta Giuseppe Prati: «Era circa mezzanotte quando in fila indiana ci incamminammo verso il Lama. In quel preciso momento nasceva di fatto la 38ª Brigata Garibaldi. Ricordo ancora il grande silenzio e l’immensa profondità del cielo di quella notte: la luna, eterna propiziatrice e testimone delle vicende umane, sembrava voler proteggere i nostri passi: era piena, lucente come poche volte. In lontananza contro l’orizzonte delineavano i loro enormi dorsi sinuosi il Monte Moria, il Menegosa e Monte Lama». La mattina seguente, le tende vengono innalzate e lo spartano quartier generale dal quale il capitano Selva coordina i suoi uomini si anima. Sono quei primi giorni di vita in comune, superando le difficoltà, che cementano per sempre l’identità dei partigiani valdardesi. Quella salita notturna sul Lama rappresenta il momento della scelta, di diventare partigiani, di combattere. Presto i lanci alleati armano le mani degli uomini di Selva, che escono dall’ombra e ‒ comune dopo comune ‒ liberano la valle, a partire proprio da Morfasso dove Bersani, il 24 maggio 1944, insedia la prima amministrazione civica nominata dal Cln nell’Italia occupata. Pochi giorni dopo, nella notte tra il 3 e il 4 giugno, il Monte Lama viene bombardato e ancora oggi, soprattutto nella zona adiacente al Monte Castellaccio, sono ben visibili i crateri delle esplosioni. Il giorno seguente il Lama e tutta l’area circostante subiranno il primo rastrellamento nazifascista e la guerra, per quasi un anno, non lascerà più la valle.

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