SL1 – Il sentiero di Giovanni lo Slavo

L’itinerario si sviluppa su sentieri, strade forestali e brevi tratti di strada asfaltata, è percorribile in tutti i periodi dell’anno, con lunghezza e dislivelli medi, adatto a tutte le persone abituate a camminare in natura e in buona forma fisica. Nei periodi di precipitazioni intense (pioggia o neve) in alcuni tratti del percorso si possono formare depositi (fangosi o nevosi), ai quali occorre prestare molta attenzione.

Si tratta di un percorso ad anello che inizia e si conclude in loc. Dadomo di Vernasca (dove è possibile parcheggiare lato strada).

Si può raggiungere l’itinerario anche a partire dal Museo della Resistenza Piacentina, posto nella vicina località di Sperongia di Morfasso (dove è possibile parcheggiare).

Sul percorso sono presenti segnavia CAI: nel primissimo tratto si trovano infatti indicazioni relative al sentiero 921 e, successivamente, quelle relative al sentiero GLS (la prima incarnazione del sentiero di Giovanni Lo Slavo), potenziate nei punti più significativi del percorso dalla caratteristica segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina.

A circa metà del percorso, appena sotto la Rocca dei Casali, presso l’abitato di Case Nuove è presente un punto acqua.

Difficoltà
Medio
Livello
Escursionistico
Lunghezza
11 km
Durata
4,5 ore al netto delle soste

Inizio/Fine
loc. Dadomo di Vernasca (PC) - loc. Dadomo di Vernasca (PC)
Dislivello salita
650 m
Dislivello discesa
650 m

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Il primo sentiero: l’intuizione di Franco Sorenti

Si può dire che da qui è cominciato tutto. Il “Sentiero di Giovanni lo slavo” non è solamente il primo sentiero, quello vicino al Museo, tanto che con una piccola deviazione si può partire proprio da lì. È l’intuizione di Franco Sorenti, che lo ha immaginato, progettato e realizzato pensando a suo padre, Giacomo, nome di battaglia “Matteotti”, che in quei boschi e su quei crinali accompagnava il Comandante della 62a Brigata. È l’idea che ci ha portato qui, a questo progetto e a questa guida. L’idea di coniugare storia ed escursionismo, l’idea di portare la gente dentro il teatro degli eventi della Guerra di Liberazione nel piacentino.

Sebbene sia un classico percorso ad anello, il “Sentiero di Giovanni lo Slavo” prevede alcune deviazioni, in prossimità di luoghi d’interesse. Il percorso parte da Settesorelle, più precisamente dalla località Dadomo, e attraverso una camminata tra prati e boschi ci porta a valle della frazione e scende, attraversando la strada asfaltata che sale dal fondovalle, verso Gariboia, dove nell’aprile del 1944 si radunarono i primi partigiani di Val d’Arda. Da Gariboia si prosegue nel bosco, salendo gradualmente fino a raggiungere una casa diroccata, di cui restano solo alcune pareti in sasso. Si tratta della “Casa del cucù”, luogo di rifugio dei partigiani. Proseguendo sul fianco della montagna si giunge alla frazione Case Nuove, dove si trova una fontana a cui rifornirsi di acqua prima di affrontare la salita più impegnativa del tragitto. Prendendo quindi a sinistra si sale fino a raggiungere un gruppo di case abbandonate, Rocca, e ci si trova davanti ad un bivio: il nostro sentiero principale sale a destra verso la sommità della Rocca dei Casali, ma scendendo a sinistra per un breve tratto e girando poi a destra sul sentiero appositamente segnalato con la caratteristica segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina, si può raggiungere la Grotta dell’eccidio: qui una lapide ricorda  due partigiani di 17 anni trucidati dai tedeschi durante il rastrellamento invernale del gennaio 1945. Si ritorna quindi alle case abbandonate di Rocca e si prosegue salendo fino al punto più alto del percorso, la Rocca dei Casali, dove incontriamo un crocevia di sentieri. Anche qui consigliamo vivamente un’ulteriore deviazione dal sentiero. Invece di scendere direttamente nel bosco sul versante opposto in direzione Dadomo, per concludere il percorso, si può salire a sinistra nel prato, per poi seguire il sentiero nel bosco e sbucare sulle rocce della Rocca dei Casali, da cui si gode di un panorama impagabile: è il luogo ideale per una sosta. Ritornando al crocevia si scende quindi a sinistra, seguendo la caratteristica segnaletica a stella con fondo bianco e bordo rosso del Museo della Resistenza Piacentina che ci accompagnerà fino a incontrare la strada asfaltata e quindi a Dadomo, il punto di partenza del nostro percorso.

Partigiani di tutto il mondo, unitevi!

Nel 1940 viene organizzata a Napoli la Mostra delle Terre italiane d’Oltremare, un’esposizione coloniale che doveva permettere di vedere da vicino le meraviglie dell’Impero. Tra queste, i suoi abitanti, i sudditi coloniali. Una sessantina di etiopi, somali ed eritrei vengono portati in Italia per essere esposti, con abiti e utensili “tradizionali”, in una sorta di zoo umano. Se non che, con lo scoppio della guerra, gli africani in mostra rimangono bloccati in Italia. Nel 1943 li troviamo internati in un campo apposito nelle Marche, in provincia di Macerata. Una decina di loro (uomini e donne) scelgono di fuggire e unirsi alla banda partigiana di Mario Depangher, comunista istriano che aveva allestito una formazione internazionale composta da britannici, ebrei, croati, sloveni. La loro è una scelta libera: non corrono il rischio di essere deportati, né tantomeno chiamati alle armi da un’Italia razzista, che li considera inferiori. Il battaglione meticcio dà del filo da torcere ai fascisti. Tra i tanti atti di coraggio, vale la pena ricordare quello del partigiano etiope Abbabulgù Abbamagal “Carlo”, che muore in uno scontro a fuoco con truppe della Wehrmacht. Soppravvive invece Abdissa Agga, che entrerà a Roma liberata sventolando la bandiera etiope, a fianco del vicecomandante della banda, lo sloveno Jule Kačič “Giulio”, e al suo ritorno a casa sarà accolto come un eroe da Haile Selassie. La storia di questa formazione composita, dissepolta dai Wu Ming e dallo storico Matteo Petracci, illumina a fondo la dimensione transnazionale della Resistenza. Nella Seconda guerra mondiale si scontrano non più nazioni ma idee e visioni del mondo, opposte ed inconciliabili: il luogo di nascita non vale più ad assegnare automaticamente un soldato a un campo di battaglia piuttosto che ad un altro, e le trincee sono trasversali. I partigiani che scelgono di combattere in Italia provengono da tutto il mondo. Sono per lo più sovietici (come Fëdor Poletaev “Gigante Fjodor” della Brigata “Oreste” ucciso nella battaglia di Cantalupo Ligure) e jugoslavi (come la comunista croata Vinka Kitarovic “Lina”), ma anche polacchi, australiani, oppure indiani, come il sikh “Sad”, che combatte nella Brigata “Stella Rossa” sull’Appennino Bolognese.

I percorsi che portano questi partigiani in Italia sono complessi e sorprendenti. Greci, albanesi, slavi e montenegrini vengono catturati nel corso delle guerre d’invasione, e detenuti in Italia. Spesso sono ufficiali dell’esercito o membri della Resistenza, con un progetto di lotta definito. Altrettanto agguerriti sono i sovietici, fatti prigionieri nel corso della Campagna di Russia. Numerosi sono poi i cittadini del Commonwealth, provenienti da tutti i continenti, con i quali l’Esercito italiano si era scontrato in nord Africa.

Insomma, prigionieri dalle diverse provenienze, che dopo l’Armistizio fuggono dai campi di concentramento sparsi in tutto il Paese, costituendo i primi nuclei di guerriglia.

Ci sono poi i soldati di nazionalità non tedesca aggregati alla Wehrmacht, provenienti soprattutto dall’Asia centrale, ma anche dalla Cecoslovacchia. Molti di loro scelgono di disertare, anche a causa del cattivo trattamento riservato alle truppe sottoposte, e di unirsi ai partigiani. Talvolta lo fanno a gruppi, costituendo intere brigate, come i 560 cecoslovacchi che militano nella Divisione “Barni” nell’Oltrepò pavese.

Nel dopoguerra, la Resistenza si è raccontata come un fenomeno nazionale. I partigiani sventolano il tricolore, si uniscono in comitati di liberazione nazionale, si chiamano patrioti. Questo vuole senz’altro rappresentare una forma di riscatto per tutto un Paese che era stato tra i principali responsabili della guerra e delle leggi razziali. Oggi però sempre più studiosi guardano alla Resistenza come un movimento transnazionale, multiculturale e meticcio. Le Resistenze sono plurali e non sono appannaggio maschile o europeo. In tutto il mondo, uomini e donne di ogni nazione lottano contro gli autoritarismi di destra. Fanno tutti parte di un unico grande fronte, che tiene insieme i partigiani d’oltremare della Banda “Mario” così come i soldati italiani in Montenegro che dopo l’armistizio scelgono di diventare “partizani” a fianco del movimento di Liberazione di Tito.

Comandanti venuti da lontano

La provincia di Piacenza è sede di diversi campi di internamento per prigionieri di guerra. Molti di loro sono ufficiali, con una discreta esperienza militare, e dopo la caduta del Regime diventano ribelli leggendari, ammirati dai giovani partigiani e temuti dai fascisti. Il sentiero attraversa i luoghi di uno dei comandanti venuti da lontano: Jovan Grcavaz, ufficiale di Marina internato in Italia dopo l’invasione della Jugoslavia, che diviene comandante della 62a Brigata “Luigi Evangelista”.

Nato a Risan nel 1910 (oggi in Montenegro), Grcavaz viene catturato in Serbia nel 1941 da truppe nazifasciste, e internato a Cortemaggiore. Dopo l’8 settembre 1943, con un gruppetto di compagni di prigionia, scappa nei boschi della Val d’Arda, trovando rifugio in frazione Osteria, nei pressi del guado di Bardetti. La personalità carismatica di quello che ormai è per tutti Giovanni lo Slavo, fa affluire nella formazione diversi giovani montanari della zona, e arriva alle orecchie dei comunisti di Fiorenzuola, che si mettono in contatto con Jovan e lo riforniscono di armi e munizioni.

La banda fa base a Settesorelle, nella frazione di Dadomo, e si fa conoscere come una delle formazioni più attive della Val d’Arda. I partigiani dello Slavo controllano la zona più orientale della provincia di Piacenza, e si dimostrano sempre pronti e combattivi. Presto iniziano ad attaccare caserme e presidi della Gnr a Luneto, Borla, Vernasca e addirittura a Lugagnano, spingendo i fascisti ad abbandonare i paesi. Diverse squadre volanti compiono puntate sulla via Emilia, rendendo insicuro il transito dei nemici. Lo stile di comando di Jovan mescola sapientemente elementi e discorsi socialisteggianti ad un solido realismo, che lo spinge a creare ottimi rapporti con la popolazione del luogo. Tra loro i coniugi Peppo e Giannetta, che gestiscono l’osteria dell’Arda a Pedina, che diventa luogo di ritrovo e riunione per molti partigiani.  Inquadrato inizialmente all’interno della 38a Brigata Garibaldi, Giovanni lo Slavo rivendica sempre una certa indipendenza e autonomia per la sua banda. Questa attitudine, insieme al suo valore, viene sancita definitivamente nell’autunno 1944 dal Comando Unico, che riconosce alla formazione dello Slavo il rango di brigata: nasce così la 62a Brigata “Luigi Evangelista”, sempre indipendente e libera, saldamente compatta intorno al suo comandante. Forse anche a causa di questa fiera irriducibilità, dopo il grande rastrellamento invernale, la figura di Jovan Grcavaz viene fatta oggetto di pesanti critiche, che lo accusano di avere abbandonato la zona in modo precipitoso e scomposto, senza “coprire” le formazioni vicine.

Nell’azione repressiva, condotta da imponenti truppe naziste, perdono la vita tanti partigiani, come Gianni Crotta “Pacca” e Pietro Rossi, due giovani di soli diciassette anni sorpresi in un anfratto roccioso sotto la Rocca dei Casali, oggi soprannominata “la grotta dell’eccidio”.

Sostituito al comando della sua formazione, Grcavaz vive l’ultima fase della guerra da partigiano semplice, vittima anche delle diffidenze nei confronti degli slavi che si acuiscono dopo il conflitto. Il lungo braccio di ferro tra Italia e Jugoslavia per il confine orientale provoca un’ondata repressiva contro gli slavi residenti nella Penisola, sospettati di essere agenti di Tito. Jovan, come tanti altri, viene internato nel campo di Fraschette di Alatri, in Lazio.

I percorsi dei partigiani che vengono da lontano sono avventurosi anche nel dopoguerra. In molti passano velocemente dallo status di stimati comandanti a quello di stranieri, disoccupati, senza famiglia e conoscenze. Così Giovanni lo Slavo, che dopo l’internamento sceglie di migrare negli States insieme alla moglie, una giovane conosciuta proprio a Settesorelle. Sarà sepolto nel 2002 a Milwakee come John Grkavaz.

 

 

 

1 commento su “SL1 – Il sentiero di Giovanni lo Slavo”

  1. Gagliardi Nicola

    Il 15/3/2022
    Sentiero impegnativo che ti immerge nella natura. Con la mente si torna indietro nel tempo.
    A Gariboia, alla casa del Cucù. Le case di Rocca e la grotta dell’eccidio. La cima Rocca Casali offre un panorama bucolico. Lo rifarò con amici.

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